problemi di lavoro

UNA CITTÀ n. 56 / 1997 Febbraio

Intervista a Giuseppe Farias
realizzata da Edi Rabini, Gianni Saporetti

LA FORMAZIONE CHE NON SI DA’
La qualità della formazione professionale che dovrebbe essere in cima alle preoccupazioni dei governanti di un paese dove più del 60% dei ragazzi resta al di qua del diploma superiore, continua ad essere del tutto sottovalutata. Una situazione incostituzionale dove le scuole professionali non passano, come dovrebbero, alle regioni. Intervista a Giuseppe Farias.

Giuseppe Farias, già docente di Fisica, collaboratore da sempre de Il Mulino, è tra i maggiori esperti italiani di formazione professionale.

Vorremmo parlare con lei della formazione professionale che sembra essere la cenerentola dei problemi di cui si preoccupano i nostri governanti. Intanto, cosa si deve intendere per formazione professionale?
Penso sia utile qualche chiarimento di ordine costituzionale. L’articolo 35 della Costituzione recita: "La Repubblica cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori". Il costituente decise, cinquant’anni fa, che i cicli che riguardavano la professionalità dei lavoratori fossero due: uno di formazione e l’altro di elevazione. La formazione riguarda il futuro lavoratore, quindi il giovane in quanto potenziale lavoratore, mentre l’elevazione riguarda il lavoratore già qualificato. E’ bene mantenere sempre presente questa distinzione che è di tutti i paesi industrializzati; qualche equivoco vien fuori se si adopera, come fanno i francesi, la dizione "formazione continua", perché si rischia la demagogia dello slogan: "A scuola per tutta la vita". Non è vero niente: si va a scuola quando si è giovani, poi si fa formazione continua, che è un’altra cosa. Il mondo tedesco non adopera la parola formazione: approfittando della sua possibilità di costruire vocaboli, usa l’espressione Berufsbegleitende Fortbildung che non è la formazione di base (Berufsausbildung), ma quel tipo di promozione che si realizza continuamente sul piano professionale.
Quindi il processo formativo professionale non riguarda tutti i cittadini, ma solo i lavoratori. Non si tratta, cioè, di quell’educazione permanente che si innesta sulla socializzazione primaria e che conferisce a tutti i giovani una base comune di istruzione, ma di una fase successiva di socializzazione professionale che mette di fronte alla scelta di un ruolo, di una professione, imposti dal mondo del lavoro e dalla molteplicità di ruoli che lo caratterizza.
In questa seconda fase la persona è coinvolta da due processi formativi paralleli, che si influenzano l’uno con l’altro. Il primo è la continuazione dell’istruzione di base, che si realizza attraverso l’acquisto di libri, di riviste, la frequentazione di concerti, di teatro, di biblioteche, di conferenze, attività culturali delle quali lo Stato è responsabile e delle quali il cittadino è libero di approfittare; l’altro è vissuto da una stessa persona per il fatto di essere medico, perito elettronico, barista e ha bisogno di stare al passo coi tempi. Glielo chiede l’impresa nella quale lavora, perché non vuole che egli diventi vecchio, professionalmente parlando. L’azienda ha interesse ad avere dipendenti che, man mano che il tempo passa, curano il proprio aggiornamento; per il lavoratore poi è un’assicurazione contro la perdita del posto. I due interessi convergono.
Teniamo presente la possibilità, non trascurabile, che l’azienda, per motivi finanziari, tecnologici e di mercato, fallisca: in tal caso la forza lavoro dovrà essere riconvertita per andare a lavorare altrove, sfruttando un processo formativo che non è quello dell’aggiornamento, ma quello della riqualificazione; un terzo caso è quello del lavoratore che si invalida, per malattia o per infortunio, e deve essere riqualificato tenendo conto delle sue capacità residue: è il caso classico del cieco che diventa telefonista. Per usare una metafora, l’aggiornamento riguarda un’impresa sana, è come una sorta di igiene del lavoro: chi lavora deve tenersi aggiornato; la riqualificazione è invece un intervento medico su una persona che si è rotta qualcosa.
Naturalmente, i problemi dell’aggiornamento e della riconversione dei lavoratori riguardano i datori di lavoro e i dipendenti di ciascuna azienda. Si tratta di una responsabilità delle forze sociali. A chi, d’altra parte, la si potrebbe delegare? Al contrario, la formazione giovanile, la preparazione del futuro cittadino lavoratore non può essere affidata alle forze sociali, si tratta di una compito formativo di cui ha responsabilità la comunità civile.
Concludendo, la fase di preparazione del lavoratore la possiamo sostanzialmente collocare fra i 15 e i 20 anni; la fase di aggiornamento e di riconversione riguarda tutta la vita lavorativa. Sgombriamo quindi il campo da tutte le dichiarazioni retoriche riguardanti, la scuola, i banchi, ecc.
D’altra parte, scuola e formazione professionale sono rigidamente separate nella Costituzione perché si tratta di compiti molto diversi tra loro, dal punto di vista dei contenuti, delle didattiche e degli operatori necessari. Infatti, la responsabilità di ciascun canale è affidata ad organismi diversi: la scuola al Ministero della Pubblica Istruzione, la formazione alle regioni, sotto la giurisdizione del Ministero del Lavoro.
In che rapporto sta, allora, la formazione professionale con la scuola?
La scuola nasce da una motivazione che è sintetizzata dall’articolo 33 della Costituzione: "L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento". Essa non ha rapporti diretti con il mondo del lavoro. La scuola nasce da un anelito di libertà di ricerca che mette i giovani di fronte ad insegnanti che hanno diritto alla libertà d’insegnamento. La scuola è il posto dove vengono istruiti i futuri quadri dirigenti: quelli superiori nell’università e nella ricerca, quelli intermedi, almeno sino ad oggi, nelle scuole medie superiori. All’obiezione: "Ma oggi la scuola dovrebbe aprirsi al mondo del lavoro", si può rispondere brevemente dicendo che essa non è tecnicamente nelle condizioni di poterlo fare.
Dopo la scuola dell’obbligo, per esempio, è necessario almeno un triennio di formazione professionale per poter ottenere la prima qualifica. Rispetto alla formazione, la scuola ha un’evidente posizione preprofessionalizzante con caratteristiche di socializzazione generale: se la scuola dell’obbligo, ad esempio, non dà il possesso della lingua italiana, una persona non sarà successivamente nelle condizioni di costruirsi un micro-linguaggio professionale. Tutti i linguaggi di carattere professionale presuppongono una lingua materna bene assimilata.
Quindi non si può pensare ad un salto che dalla scuola dell’obbligo porti direttamente al lavoro. Scuola, formazione, mondo del lavoro, questo è il percorso. La formazione professionale ha a che fare direttamente con il mondo del lavoro, la scuola mai, non bisogna chiederglielo, sarebbe pura demagogia.
Teniamo presente che neppure dopo la maturità si accede direttamente al mondo del lavoro. Ancora oggi il passaggio è costituito dal periodo di pratica professionale necessario per essere iscritti agli albi dei geometri, dei periti o dei ragionieri. E ora, una volta accettato l’accordo europeo, i maturati dovranno impegnarsi per almeno altri tre o quattro anni prima di entrare nel mondo del lavoro.
Il compito di fungere da ponte di passaggio toccherà al diploma universitario, attualmente in fase di decollo, oppure agli istituti superiori professionali, per esempio a modello delle Hochschulen della Germania Federale.
Siamo in una fase di transizione: se avete seguito quanto pubblicato dai giornali avrete notato che c’è già un dibattito aperto tra diplomati e laureati in Economia e Commercio, tra diplomati e ingegneri laureati del settore edile. L’introduzione del diploma triennale porta i laureati a temere la concorrenza dei diplomati universitari e il diplomato universitario a dire: "Bene, ora che divento diplomato universitario, che diritti acquisisco sul piano della mia professionalità? Che lavori posso fare?". Bisogna anche tener presente che dopo questi cicli, sono previsti periodi di tirocinio che si concludono con l’abilitazione professionale. Un laureato in Economia e Commercio dovrà far pratica almeno per un anno prima di acquisire il diritto di dare l’esame per essere iscritto all’albo. Un laureato in legge dovrà fare il procuratore legale per almeno due anni. Resta quindi sempre aperta la possibilità di abolire il valore legale dei titoli di studio. La scuola non assicura un posto nel mondo del lavoro in forza del titolo. Nel momento in cui un ente assume, vuole sempre accertarsi se sei in grado di assolvere il compito che ti verrà assegnato.
I titoli continueranno, non so ancora per quanto tempo, ad essere una condizione discriminante nei concorsi. In realtà, di per sé, non dovrebbero dare diritto a vantaggi. Se un tizio ha un titolo di serie B e ha lavorato, ha imparato a fare un lavoro che uno di serie A non sa fare, dovrebbe poter concorrere; all’impresa o all’ufficio dovrebbe interessare un candidato che sa fare un lavoro, non un candidato che ha un pezzo di carta di un certo livello.
La Costituzione assegna alle regioni la competenza per la formazione professionale. Ma allora in che rapporto stanno gli istituti professionali statali con la formazione professionale regionale?
Gli istituti professionali nacquero come supplenza da parte dello Stato nel periodo in cui le regioni non erano ancora realizzate. Una volta realizzate le regioni, passarono altri otto anni prima che una legge-quadro stabilisse i princìpi secondo i quali le regioni dovevano operare. Questo infatti prevede la Costituzione: lo Stato fissa i princìpi, le regioni sono libere di legiferare nell’ambito di quei princìpi e le leggi dovranno risultare compatibili. In caso contrario, lo Stato ricorre alla Corte Costituzionale perché giudichi se la legge regionale è legittima. Nel caso in cui la Corte ne riconosca la legittimità, lo Stato la accetta. Per la formazione professionale la legge-quadro ha fissato tra i suoi princìpi quelli del pluralismo e della parità, che a tutt’oggi non risultano stabiliti per la pubblica istruzione. Nell’ambito della formazione professionale non c’è un problema di parità tra enti regionali ed enti non regionali. Un ente può istituire un centro di formazione, osservando le condizioni poste dalle regioni: che gli insegnanti abbiano certi titoli, che ci siano i locali adatti. Dopodiché è in grado di presentare piani di studio, ricevere finanziamenti e amministrarli. Il rapporto che si instaura nel campo della formazione tra regione ed ente di formazione professionale non è una parifica, è il riconoscimento di un diritto.
Questo vuol dire che nella formazione professionale c’è una libertà di insegnamento maggiore di quella sancita per la scuola dalla Costituzione. L’ultimo comma dell’articolo 2 della legge-quadro stabilisce: "L’esercizio delle attività di formazione professionale è libero". Sono dell’opinione che un simile enunciato, oltre al diritto di organizzare e gestire liberamente attività di formazione, comprenda, al suo interno, il libero insegnamento. La cosa curiosa è che si fa finta di non sapere che questo aspetto per la formazione è risolto. Una eventuale assegnazione della formazione professionale alla pubblica istruzione metterebbe in discussione un principio che il Parlamento ha già adottato: la parità per quanto riguarda libertà, finanziamento e insegnamento.
Quando si parla della parità come di un grosso problema fra Chiesa e Stato, si dimentica che per una grossa fetta del mondo giovanile, e per tutto il mondo del lavoro, il problema è risolto. E che lo dimentichi la pubblica istruzione può anche essere comprensibile, ma che lo dimentichino le forze sociali che ne beneficiano o la Cei, che lascia entrare in crisi nel Veneto i suoi centri di formazione, è sinceramente incomprensibile.
Perché il ministro della pubblica istruzione non si decide a passare gli istituti professionali alle regioni, come sancisce la legge?
Come ho già detto, gli istituti professionali sono nati quando le regioni non c’erano; quando le regioni avrebbero potuto occuparsene, la situazione era ormai avviata male. L’appartamento era occupato da inquilini che preferivano il vecchio proprietario che, da parte sua, era felice di continuare ad occuparsene. E così si è preferito lasciare tutto fermo.
Perché? Indubbiamente il nostro Stato è centralista. Partiti, ministeri, quadri politici regionali sono condizionati dal centro, le forze sociali perseguono una politica di concertazione centralista. Più che altro si applica sistematicamente l’omissione: non vengono erogati adeguati contributi per la formazione giovanile o i finanziamenti vengono subordinati a condizioni che non possono, di fatto, essere rispettate dai Centri, che sono quindi costretti a licenziare personale o, peggio, a vedere i migliori insegnanti che se ne vanno o si mettono in proprio. D’altra parte, a livello di opinione pubblica regionale, i cittadini ignorano il problema perché gli istituti professionali hanno da anni il marchio di scuola media superiore dello Stato. E i politici delle regioni restano anch’essi succubi di una visione centralista.
Le motivazioni di tale centralismo statalista sono diverse e vengono da lontano. Ma per restare nell’attualità: il ministro della pubblica istruzione e dell’università, Luigi Berlinguer, dirige due ministeri che tendono ad impossessarsi del nuovo che sta per crescere in termini di bilanci, in termini di posti, in termini di potere.
A livello politico, il ministro è spinto anche dal fatto che sono a rischio i posti di lavoro del corpo insegnante; c’è una tendenza ad accentuare la permanenza di certe competenze nel settore scolastico perché così il fortissimo sindacato della scuola riceve l’assicurazione che gli insegnanti non perderanno il posto. Il fatto che al calo anagrafico non corrisponda un calo degli insegnanti, ma un aumento, è a questo proposito molto significativo.
Durante la discussione dell’ultima finanziaria è passato un emendamento, su proposta di Alleanza Nazionale, per ridurre il numero, già molto basso, di alunni per classe. L’opposizione invece avrebbe potuto proporre che gli insegnanti in esubero venissero impiegati nella formazione professionale giovanile. Tra l’altro se non si imbocca questa strada non si saprà dove andare a trovare gli operatori e dove prendere i soldi per questo settore. Se gli stanziamenti necessari per la pubblica istruzione esauriscono le risorse che il Parlamento ha a disposizione, è chiaro che la formazione professionale non può essere finanziata.
Se la formazione del sapere professionale è avvenuta finora fuori dai processi formativi istituzionalizzati, come può rientrare nel mondo della scuola?
Bisogna innanzitutto chiedersi quale valenza dobbiamo oggi attribuire ai processi di formazione professionale, diciamo al canale professionale. Il termine "scuola professionale" andrebbe bene, ma solo per il ciclo giovanile, se la mettessimo a fianco della scuola che chiamiamo liceale o tecnica, a patto che il canale professionale abbia una dignità non minore di quella degli altri due.
Io lo dico spesso: siamo arrivati, per quanto riguarda l’istruzione, al termine di un processo storico analogo al processo politico che ha portato al suffragio universale. Partendo dall’università siamo ora arrivati al "suffragio universale culturale": tutti hanno diritto ad essere almeno qualificati, oltre che a proseguire gli studi, se capaci e meritevoli. Poi che uno si qualifichi dopo tre anni e faccia il soldato, o si qualifichi dopo nove e diventi maggiore o colonnello, o si qualifichi dopo la laurea e faccia il generale, il problema non cambia. Dov’è il problema? E’ che la nostra classe dirigente non vuole prendere atto che bisogna preparare i soldati e non buttarli nella battaglia del lavoro senza preparazione, come carne da macello. Attenzione, adesso possono anche bastare tre anni, se ben fatti, per preparare un buon soldato. Fra dieci o venti anni ne occorreranno forse cinque.
Per ottenere il risultato di dare dignità al canale professionale vanno però tenute presenti due esigenze: senza un secondo ed un terzo ciclo professionale, intervallati, se necessario, da periodi di lavoro certificato, che conducano al titolo di ingegnere diplomato o di alto specializzato, le famiglie e i giovani non sceglieranno il canale professionale al momento giusto, cioè al termine dell’obbligo di otto anni. Molti tenteranno prima le scuole medie superiori e così continueremo ad avere tanti giovani frustrati e non qualificati. La società italiana ha vissuto nel secondo dopoguerra un notevole sviluppo di carattere economico e ha acquisito livelli di vita più elevati. Essa quindi, nel suo insieme, ha scelto di garantire ai suoi figli migliori possibilità di salita sociale. Poiché l’unica strada possibile, senza alternative, era quella della scuola, la giovane generazione vi si è riversata e solo negli ultimi anni ha incominciato a scegliere la via del lavoro. Oggi il 75% dei diplomati della scuola dell’obbligo si iscrive al primo anno delle superiori, anche perché le famiglie non possono prendere in considerazione una via professionale che non continua verso stadi successivi che garantiscano l’accesso a più elevati livelli professionali e sociali.
Il primo stadio della formazione professionale è un vicolo cieco ed i genitori si rivolgono a questa strada solo quando i loro figli sono espulsi dai licei e dagli istituti tecnici e professionali.
Le scuole medie superiori sono ingolfate e producono quindi espulsi, perché il sistema non offre, fin dall’inizio, percorsi che portino verso obiettivi certi e soddisfacenti, professionalmente ed economicamente parlando.
Lei sta dicendo che oggi la scuola professionale è una specie di refugium peccatorum? Sembra una scuola fondata sulla frustrazione, e questo certamente non è il modo migliore per preparare i lavoratori del 2000. Lei come imposterebbe la scuola professionale?
Gli ingredienti sono sostanzialmente due: studio e lavoro, intrecciati per lunghi percorsi che privilegiano ora l’uno ora l’altro. Al termine del primo ciclo professionale si aprono per il giovane qualificato due alternative. La prima è quella di acquisire ulteriori qualificazioni e specializzazioni. Si tratta del processo che abbiamo chiamato "promozione professionale", che è vissuto nell’ambito dell’impresa e porta a soddisfazioni professionali, finanziarie e quindi sociali. La seconda possibilità è quella di decidere di diventare quadro intermedio, maestro artigiano per esempio, attraverso l’accesso a corsi aziendali o professionali. Questa alternativa comprende anche la scelta di diplomarsi, sempre in ambito professionale, ed ottenere di essere equiparato ad un diplomato uscito dal percorso scolastico. Con un diploma del genere è possibile in generale essere ammessi ad una scuola superiore professionale (Hochfachschule), al termine della quale si ottiene un diploma paragonabile al diploma universitario introdotto recentemente in Italia. Le offerte di promozione professionale sono in realtà molto più numerose perché sono legate alle molteplici iniziative regionali o aziendali ed alla frequenza di corsi diurni o serali.
La seconda via consente, rispetto a quella scolastica, di modellare un percorso tenendo conto delle proprie possibilità e delle occasioni che si sono presentate. E’ evidente che una varietà di percorsi del genere esige la soluzione dei problemi riguardanti il reperimento degli insegnanti e la gestione di corsi professionali adeguati.
Quali problemi pone il reclutamento degli insegnanti?
Occorre distinguere innanzitutto tra insegnanti destinati ai corsi di formazione professionale e corsi di promozione professionale destinati ai lavoratori. Nel primo caso sarà possibile distinguere tra due grandi categorie di insegnanti: quelli che si dovranno occupare di discipline per le quali l’università mette a disposizione personale già preparato, e che occorrerà solo continuare ad aggiornare (laureati o diplomati), e quelli che si dovranno occupare di insegnamenti che esigono il possesso di una professionalità in atto. Fanno parte del primo gruppo gli insegnanti di italiano e di matematica, per esempio. Fanno parte del secondo gruppo gli incaricati di materie professionali e di laboratorio, per i quali sembra opportuno provvedere in parte per chiamata ed in parte con contratti di assunzione temporanea che mettano i responsabili dei Centri professionali in grado di avere personale aggiornato tratto direttamente dalle aziende. Si tratta di un problema che l’istruzione professionale non ha mai risolto, perché il Ministero della Pubblica Istruzione ha sempre voluto pagare tutti allo stesso modo con il criterio delle cattedre a vita. Nel caso degli apprendisti occorre invece pensare alla formazione di maestri artigiani ai quali affidare, in azienda, il compito di istruttori per le materie professionali.
E’ evidente, da quanto abbiamo detto, l’apporto positivo che potrà essere dato dalle associazioni dei datori di lavoro nel reclutamento, con modalità da studiare, del secondo gruppo di insegnanti.
Nel caso delle iniziative riguardanti la promozione professionale dei lavoratori il problema non è di carattere organizzativo ma solo di carattere qualitativo: toccherà in altri termini agli organizzatori delle iniziative aziendali che saranno progettate di volta in volta, reclutare gli insegnanti necessari dove sarà possibile trovarli: università, aziende, centri di formazione, scuole medie superiori.
Nel primo caso la questione è di competenza dei Centri regionali, gestiti direttamente o convenzionati. Nel secondo, invece, è degli enti che si fanno carico delle iniziative. Allorquando le forze sociali dichiarano di farsi carico della formazione professionale dei lavoratori, sarebbe opportuno che dichiarassero come intendono affrontare questi problemi e, in connessione con essi, la gestione culturale e professionale. Non è il caso di sottolineare maggiormente la cosa ricordando l’inesistente controllo, da parte dei sindacati, dei contratti di formazione lavoro.
Per concludere, da che cosa dipende, secondo lei, questa sottovalutazione storica del problema della formazione professionale?
Ci sono stati due grossi partiti popolari che, per quanto riguarda i princìpi fondamentali della formazione professionale dei lavoratori, avrebbero dovuto essere più felici e contenti di prendere in considerazione quella "massa giovanile", direbbe Enrico Berlinguer, che per il 60% staziona prima del diploma di maturità. La domanda è proprio quest: perché il bacino costituito dai giovani non qualificati non è stato mai percepito?
Si può parlare di inerzia culturale rispetto ai problemi formativi: l’istruzione è importante perché siamo abituati a sapere che è importante, la formazione professionale invece non è ancora considerata importante.
Forse la nostra cultura, in campo formativo, è predicatoria, moralistica, calata dall’alto, non fa mai i conti con la realtà quotidiana. L’intellettuale italiano che fa politica si diverte, anche se fatica, ha la possibilità di fare il bagno di folla, la gioia di parlare ad un congresso di partito, di essere intervistato dalla televisione, il che non va neppure condannato, ma fa risaltare ancora di più questa insensibilità ai problemi dellíistruzione e della formazione dei propri giovani.
D’altra parte questa riguarda anche gli elettori: l’italiano medio non tiene conto di chi gli cambia la spazzola sulla macchina, di chi gli taglia i capelli, di chi gli serve il pasto, di chi gli accetta una raccomandata o di chi gli cura una ferita in infermeria; l’uomo colto italiano ha gli occhi ma non vede, ha le orecchie ma non sente. Forse è la cecità di chi sta meglio rispetto a chi sta peggio.